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Obiettivo del Convegno

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Caterina Cittadino

Maria A. Mancini

Silvano Del Lungo

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Sperlonga 26 Ottobre 2004
Formazione-Intervento e Innovazione Organizzativa per lo Sviluppo Locale (le figure del cambiamento)
 
Caterina Cittadino

 

IMG291269.jpgSono qui per raccontare una mia esperienza in qualità di dirigente dell’amministrazione pubblica.
Attualmente dirigo l’Ufficio per il Federalismo Amministrativo, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha come compito fondamentale quello di trasferire, ossia, di fatto, di cambiare l’aspetto dell’ordinamento dell’amministrazione pubblica. La normativa di riferimento è costituita essenzialmente dall’art. 118 della Costituzione, che stabilisce, sulla base del principio della sussidiarietà, di conferire compiti e funzioni amministrativi a quegli enti che, per l’organizzazione che possiedono e per la vicinanza al territorio, sono maggiormente in grado di capire le esigenze dell’utenza, e quindi dei cittadini. Ma il mio intervento non verterà su questo.
Quello di cui voglio parlare invece è l’esperienza che ho condotto nell’ambito del precedente governo relativamente alla costituzione del ruolo unico delle amministrazioni pubbliche. Preferisco parlare di questo proprio perché, essendo concluso il lavoro, mi è possibile valutare globalmente sia i problemi affrontati che le soluzioni adottate.
Cercherò di raccontare quella esperienza per quella che è stata, tralasciando l’aspetto politico concreto, anche perché le nuove riforme avviate da questo governo hanno decretato la soppressione di un sistema considerato il perno di un cambiamento che riguardava la dirigenza pubblica delle amministrazioni dello stato.
 
Perché sono stata scelta io? Vi illustro le motivazioni che sono state espresse all’atto della mia nomina. Secondo coloro che mi hanno a suo tempo indicata, occorreva una persona che avesse una serie di requisiti per realizzare un grosso cambiamento:
- idee,
- quel tanto di ingenuità che consentisse di prendere decisioni coraggiose,
- spirito di sacrificio.
Queste sono le tre motivazioni riportate sul decreto che ha sancito la mia nomina. Si trattava di un ufficio di grande rilevanza, perché doveva dar vita ad una trasformazione della dirigenza pubblica che coincideva con la contrattualizzazione della dirigenza stessa. Si trattava di un cambiamento difficile, soprattutto in quanto comportava la perdita di quello status giuridico che garantiva ai dirigenti tranquillità e stabilità assolute, e di ampie dimensioni, poiché nella costituzione del ruolo unico sono stati coinvolti tutti i ruoli dirigenziali di ogni grado delle oltre trenta amministrazioni dello Stato.
 
Il cambiamento non riguardava solo la dirigenza, ma anche i direttori del personale, titolari fino a quel momento della funzione che ora veniva accentrata nel “direttore del ruolo unico”. La dirigenza in questo cambiamento perdeva l’identità configurata nel Ministero di appartenenza, per entrare in un sistema più massificato e meno familiare in cui le sicurezze precedenti venivano a mancare.
Per gli altri attori del cambiamento, ossia i direttori del personale, tutto questo ha significato la perdita di una delle leve del potere. È noto, infatti, che nelle amministrazioni pubbliche e private la gestione del personale è innegabilmente la gestione di un potere.
 
Nei primi momenti della mia esperienza il fatto di essere molto giovane e donna non mi ha aiutata. In più avevo ricevuto il compito di cambiare l’intero sistema, scardinando una serie di centri di potere e di mentalità.
Per questo quando ho accettato l’incarico, lo confesso, ero molto preoccupata. Questo ufficio nasceva già avversato da più parti. La riforma della dirigenza faceva paura, come tutte le cose non comprese, per mancanza di cultura, o forse perché erroneamente è stata fatta piovere all’improvviso sulle teste delle persone.
 
Sulla comprensione e l’accettazione del cambiamento ha inciso molto l’età della dirigenza pubblica. Non appena costituito il ruolo unico, infatti, le prime rilevazioni che ho fatto mi hanno svelato un età media della dirigenza pubblica di 58 anni. Si trattava di persone che per una lunga parte della loro vita erano state abituate a lavorare in un certo modo, a pensare in un certo modo, ad avere un determinato approccio, e per questa riforma non erano state formate.
Per tutti questi motivi accettare l’incarico è stato per me una sfida.
 
Quali sono state allora le mie prime preoccupazioni?
Prima di tutto formare una squadra, cosa non semplice anche per la difficoltà di trovare personale qualificato. Come si è detto, infatti, nessuna opera di formazione era stata precedentemente effettuata.
I requisiti che cercavo nel personale che avrebbe composto la mia squadra erano soprattutto elasticità mentale, voglia di mettersi in discussione e capacità di sacrificio, oltre che di una serie di requisiti tecnici specifici per le varie esigenze. A contare di più sono stati senza dubbio i requisiti di carattere motivazionale e relazionale, in considerazione del fatto che un cambiamento così veloce richiede non soltanto alla leadership, ma a tutti coloro che ne sono coinvolti, un’elasticità mentale notevole per comprendere la trasformazione ed attuarla di conseguenza.
Con qualche difficoltà la squadra, piccolissima, è stata messa insieme.
 
A questo punto si poneva il problema di motivare la squadra, partendo dalla considerazione che, se in un’organizzazione già esistente è senza dubbio fondamentale la distribuzione dei compiti, in una nuova organizzazione sono necessarie soprattutto flessibilità e trasversalità.
La prima azione che ho compiuto per motivare la squadra è stata quella di presentare tutti al ministro, mio diretto referente.
Successivamente le riunioni periodiche, non improntate solamente alla distribuzione di compiti, hanno offerto occasione di motivazione continua. Sono sempre stata convinta del fatto che conoscere lo scopo di un lavoro aiuta a condividerlo ed attuarlo al meglio. Per questo nel mio modo di procedere negli anni ho cercato sempre di far precedere qualsiasi richiesta io facessi ad un mio collaboratore dalle motivazioni che mi spingevano a fare quella richiesta e dallo scopo che ogni azione aveva.
Oltre a questo, aiutata anche dalla normativa che mi obbligava a farlo, ho predisposto forme di pubblicazione dei risultati che man mano si realizzavano. In ognuna di queste pubblicazioni semestrali ciascun componente della squadra, relativamente al proprio ambito di intervento, documentava con relazioni, grafici e resoconti i risultati raggiunti. Queste pubblicazioni erano presentate anche al Parlamento, quindi ad un organo di notevole prestigio.
Lungo tutto il percorso ho cercato di coinvolgere tutti in una comunicazione più allargata, che non fosse quella meramente istituzionale, ma che fosse rivolta all’utenza (i direttori del personale appunto) anche attraverso raccolte di leggi, di circolari, di qualsiasi cosa servisse per attuare una formazione culturale su un tema che, come si è detto, era un po’ piovuto dal cielo.
Per l’organizzazione informatica, invece, mi sono rivolta alla consulenza. In 100 giorni sono riuscita a mettere insieme e far funzionare una banca dati di grandi proporzioni relativa a tutta la dirigenza. Una società informatica, come dicevo, mi ha aiutata a realizzare tutto questo, sempre però sulla base di input di volta in volta messi insieme e forniti da una parte della mia squadra.
Indubbiamente nella realizzazione di tutto questo mi ha aiutato una condizione fortunata, di quelle che non sempre si verificano, ma che, quando si verificano, bisogna avere la capacità di cogliere: la coesione politica. Non solo il mio ministro di riferimento, infatti, ma il Presidente del Consiglio e l’intero governo volevano che venisse realizzata senza lungaggini questa parte della riforma della dirigenza. Se questa coesione politica non ci fosse stata,  sarebbe stato molto più difficile superare quegli ostacoli che ho inevitabilmente incontrato.
 
Un aspetto è stato per me molto importante, quello delle relazioni. L’università Bocconi teorizza che un manager, per avere successo, ha bisogno essenzialmente di tre cose: professionalità, lobby e relazioni appunto. Di queste avevo appunto bisogno, non potendo certamente considerare la mia squadra di lavoro come un’isola.
Le mie relazioni erano da una parte con l’autorità politica, con cui c’è stata fortunatamente una condivisione, dall’altra, non potendo riguardare la generalità degli oltre diecimila dirigenti delle amministrazioni dello stato, erano con i direttori del personale, cui guardavo come ai miei stakeholders di riferimento. Perciò, pur con il rischio concreto di essere considerata una nemica piuttosto che una della squadra come io volevo, ho comunque sempre effettuato riunioni periodiche con tutti i direttori del personale in cui si discutevano in particolare gli aspetti di interrelazione fra le decisioni che venivano prese e il ruolo che essi erano chiamati ad esercitare, in quanto punti di raccordo per tutta la dirigenza che apparteneva ai loro ministeri. Anche in mancanza di una condivisione piena di quanto avveniva, era necessaria comunque una comunicazione efficace. È stato questo un altro aspetto determinante del mio intervento.
 
Ho detto che nella scelta dei componenti della mia squadra ha contato molto il requisito dell’elasticità mentale, che, va detto, non ha coinciso sempre con la giovane età. Anzi, diversi membri della mia squadra erano più anziani di me e arrivavano anche ai 60 anni. Ho capito dunque che la capacità di guardare con ottimismo al futuro e di credere nelle cose, se può essere facilitata dalla giovane età, si può senz’altro trovare anche in persone che appartengono a quell’età che giovane non può più definirsi.
 
Ho imparato anche un’altra cosa in questa esperienza. Quando si accetta un lavoro, qualsiasi esso sia, pur senza trasformarlo in una missione (gli eccessi sono comunque negativi), è necessario crederci, capire cosa si vuole, averne una visione strategica. Così sarà più facile costruirsi anche una visione organizzativa e definire ciò che occorre per realizzare l’obiettivo.
Nel momento in cui si crede in quello che si fa prima di tutto ci si diverte, e poi si è necessariamente costretti, nell’approccio organizzativo, non solo a cambiare le cose da fare, ma anche il modo di essere, l’aspetto motivazionale. Se un manager non crede fermamente in quello che fa o ha dei dubbi non riuscirà a motivare neanche gli altri.
 
In conclusione un’altra considerazione secondo me importante. Non sempre le cose nuove sono nuove in assoluto, per cui spesso bisogna guardare i processi di cambiamento in una prospettiva più ampia di tempo e di spazio. Questo aiuta a capire chi ci sta intorno, le professionalità che ci sono e che possono essere formate, valorizzate e potenziate. Così si può coniugare la saggezza dell’esperienza, particolarmente utile in cambiamenti così veloci, con la mentalità del nuovo. Per cambiare il modo di essere e non solo di fare, molto spesso basta solo cambiare atteggiamento mentale.


 

 
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